domenica 28 settembre 2014

Guilty of Romance

Il Giappone, una bellissima terra, altamente industrializzata, con una tradizione artistica antichissima... ma anche un popolo antiquato, xenofobo e soprattutto maschilista e opprimente nei confronti delle donne, sottomesse e sottoposte ad una società che vede il esse unicamente la funzione di casalinghe o commesse o addette ad altri lavori servili, e che ostacola quelle che provano  a fare carriera in ambienti che non rientrano in quelli sopracitati: in questo clima Sion Sono dirige Guilty of Romance.

La protagonista Izumi è il prototipo della “moglie modello” giapponese, una casalinga meticolosa, la cui vita ruota attorno al marito scrittore, e la bravura del regista risiede proprio nel mostrare con poche inquadrature la noia ma allo stesso tempo l’oppressione della sua routine quotidiana, basata unicamente nel servire in toto il marito, temendo le conseguenze di un suo errore, ed è da questo punto di partenza che inizia l’evoluzione del personaggio: in questo clima in cui la moglie è completamente dipendente dalla sua “dolce metà”, qual è l’unica cosa in cui, fisicamente, l’uomo dipende dalla donna? Qual è l’unica cosa su cui Izumi dovrà puntare per acquistare indipendenza? Il sesso.

Ed è proprio col sesso che gli uomini cambiano completamente forma in questo film, da dominatori la cui punizione è temutissima, diventano puri oggetti per il piacere di Izumi, un godimento non tanto fisico, ma dovuto al piacere del comando,di avere “il coltello dalla parte del manico”: il prezzo è indifferente, Izumi, e poi Mizuko, non chiedono soldi in quanto prostitute, non sono spinte dal guadagno, ma dal piacere di avere qualcuno alle proprie dipendenze, sono spinte dal poter decidere chi soddisfare e chi no, a chi concedersi e a chi rifiutarsi, il potere infatti non risiede tanto nel sesso, quanto nella consapevolezza di esso, concedendosi senza un compenso, all’inizio, Izumi è ancora nella sua condizione di sottoposta,soddisfa l’ennesimo ordine dell’uomo,  comincerà ad evolversi dopo aver capito il potenziale del rapporto fisico, tuttavia per tutto il film resterà su di lei l’alone del marito, dell’oppressione, infatti (quasi) tutti i suoi cambiamenti avvengono nella sofferenza, anche nel suo momento di maggior sicurezza ci sarà qualcosa a riportarla (seppur temporaneamente) in uno stato d’oppressione.

Al tempo stesso troviamo Mizuko come altra faccia della medaglia, inebriata del “potere” del sesso,insito in lei in quanto donna, entra in crisi una volta giunta di fronte al “castello di Kafka”, l’uomo che non può portarsi a letto, a cui può solo “girarci intorno senza mai raggiungerlo”: in quest’uomo lei vede la fine di tutto ciò che ha provato a costruire, dando inizio alla sua fine.

Il regista chiosa infine sui suoi personaggi, con una bellissima analogia sulla parola parlata: ogni parola ha un “corpo”, un significato, identificabile tramite la parola stessa, e tali sono le due protagoniste del film: corpi, significati, senza definizione, la loro confusione ed insicurezza derivano dall’essere corpi, significati, privi e alla ricerca di una parola, un significato, un’identità.

Sion Sono con questo film ha creato una perfetta rappresentazione, se non esasperazione, della donna giapponese contemporanea, in una folle ricerca della propria identità Izumi, e dunque il regista, ci mostreranno le pene e gli orrori di una società opprimente e spietata verso chi prova ad acquistare un’indipendenza che non è destinata a provare, un film assolutamente da recuperare, possibilmente in lingua originale sottotitolata, dato il pessimo lavoro di doppiaggio svolto, caratterizzato da un pessimo lip-sink e vari errori concettuali (es. non dicono yen ma dollari), ma che fortunatamente non oscura l’ottimo lavoro svolto dall’autore.

VOTO 4/5

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